Storia della domesticazione
Parlando di domesticazione, è assai probabile che il primo animale a passarci per la testa sia il cane. Ma la vicenda del suo rapporto con l’essere umano è in realtà un episodio singolare e senza uguali nella storia della domesticazione. In primo luogo perché il protagonista è lui in persona: il cane, non l’uomo. È lui a intuire il vantaggio di una collaborazione con la nostra specie e ad avvicinarsi per approfittare di tutto quel ben di Dio che gli esseri umani buttano, offrendo in cambio sorveglianza notturna e aiuto nelle battute di caccia. Poi perché si tratta di un episodio isolato, mentre il grosso della domesticazione deve ancora cominciare.
Siamo infatti attorno al 12.000 a. C., comunque in pieno paleolitico. E da lì a un bel po’ di tempo dopo, di addomesticare altri animali non se ne parla proprio. Passano duemila anni e arriva la de-glaciazione. Il clima si fa più umido, proliferano i cereali e la gente si stabilisce nei primi villaggi. È la rivoluzione neolitica, ma è un cambiamento piuttosto lento, perché occorre aspettare ancora un migliaio di anni prima che si addomestichino i primi animali per uso alimentare. E anche allora, per molto tempo, la maggior parte del cibo continua a provenire da caccia e raccolta. Le prime domesticazioni alimentari hanno però un senso sociale e religioso. Possedere un animale significa disporre di un bene prezioso, da offrire ai propri simili come ostentazione di prestigio sociale o da sacrificare alle divinità nel contesto di una festa religiosa.
L’animale ha comunque un valore altissimo, sia economico che simbolico, e il suo trattamento esige parsimonia e rispetto. Si tratta di un modo di pensare che rimane immutato anche quando l’allevamento si afferma nell’economia delle civiltà ormai divenute sedentarie. Il consumo di carne nell’antica Grecia è infatti rigorosamente limitato al tempo del sacrificio. E, per ragioni analoghe, a Roma l’uccisione del bue aratore al solo scopo alimentare è un atto criminale da paragonare all’assassinio di un membro della famiglia.
La cose un po’ cambiano con la caduta dell’impero romano e l’arrivo dei popoli germanici. Il consumo di derivati animali riceve un forte incentivo simbolico, ma c’è da aspettarselo da un insieme di civiltà nomadi che vivono di caccia e pastorizia. Ciò che non cambia è però la consapevolezza del fatto che l’animale ha un’esistenza che non è a nostra completa disposizione. Da una parte sta il cacciatore che ha a che fare con un essere che fugge e che gli si rifiuta immediatamente. Dall’altra parte c’è il pastore che alleva un animale con le sue necessità: certo lo dovrà uccidere, ma è anche costretto ad accudirlo e ad entrare in rapporto con lui.
Una certa vicinanza tra uomo e animale percorre allora tutto il medioevo e la modernità, implicando un rispetto reciproco. Questo finché l’Europa non matura un pensiero terribile: la catena di montaggio. Ora il cane e il bue non condividono più la stessa abitazione, l’industria li separa. Le immense fabbriche di carne allontanano i cittadini dai luoghi del sacrificio, perché i posti in cui gli animali sono uccisi sono le periferie, dove è più facile gestire la macchina industriale.
Avviene una sorta di de-domesticazione che impone una distanza tra lo sguardo e l’uccisione, così che non si riesce più a vedere il rapporto tra ciò che viene mangiato e l’animale il cui sacrifici ha reso possibile quel nutrimento.
In casa restano solo gli animali da compagnia Si vive allora una forma di scissione schizofrenica. Perché da un lato gli animali domestici sono investiti di un affetto (e di qualche frustrazione) senza precedenti nella storia; dall’altro maiali e mucche sono trattati solo come carne da macello. Di qua sta l’illusione di Cip e Ciop che se la spassano a mangiare allegramente ghiande. Di là, in periferia, fuori da sguardi indiscreti, l’intera natura diventa una materia prima anonima da cui prendere avidamente, senza neanche lanciare un’occhiata all’abisso da cui proviene quel cibo.
E così, dove non vediamo più, la domesticazione muore. Perché muore il rapporto con l’animale addomesticato. E perché quello che ne resta, cani e gatti, sono l’immagine illusoria di una convivenza pacifica che nell’industria dei macelli è negata. Sono un inganno. Ma sono anche la testimonianza di questo inganno: perché il rapporto quasi ossessivo che abbiamo con loro si pone in netta contraddizione con la freddezza industriale dei macelli e ne denuncia implicitamente l’ingiustizia. Il senso umano della domesticazione è ancora vivo allora, ma occorre ripensarlo. E non c’è da andare tanto lontano perché, come scriveva il poeta Hölderlin, “là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che salva”.
La salvezza è negli occhi di questo gatto che sono un enigma da risolvere: un labirinto in cui l’amore degli uomini per l’animalità è intrappolato e da cui solo con mente lucida e volontà ferma si potrà uscire un giorno. Ma è una storia che deve ancor essere scritta.
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