I have a dream. Credere per vedere
“I have a dream”. 28 Agosto 1963, Lincoln Memorial di Washington. A parlare è Martin Luther King Jr. Sono anni difficili. Dal 1960 gli Stati Uniti d’America sono presieduti da un uomo dal destino enigmatico: John Fitzgerald Kennedy. Che ne ha viste di tutti i colori: la costruzione del Muro di Berlino, il mondo sull’orlo di un conflitto atomico a Cuba, il profilarsi di un coinvolgimento militare nel lontano Vietnam. E che il 22 Novembre 1963 viene assassinato a Dallas, in Texas.
Il discorso di Martin Luther King
“I have a dream” grida Martin Luther King in quell’Agosto. Il suo nome riporta indietro di 450 anni rispetto al giorno del discorso, a 500 anni di distanza da noi. Al più grande eretico della storia della chiesa cristiana: quel Martin Lutero che nel ‘500 rivolta l’Europa come un calzino. Il padre di Martin aveva assunto per primo quel nome, cambiando il suo, affascinato dalla figura del riformatore cinquecentesco. L’aveva poi trasmesso al figlio, cambiando i nomi di entrambi. Da Michael King che si chiamavano a Martin Luther King: senior e junior.
I have a dream: una scommessa
“I have a dream”. La voce del pastore suona come un ritornello. Perché è il sogno che sostiene con forza gli animi in lotta, che rende instancabili le loro forze. Un obbiettivo in cui credere, una scommessa. E la convinzione che ciò per cui si lotta sia la cosa giusta. Perché a volte il sogno è più reale della realtà, l’assenza è più presente della presenza. Il sogno apre una breccia nel futuro. E chi apre una breccia in quel vuoto ne viene risucchiato. Tutto il presente si orienta verso il punto di fuoco.
La preghiera
“I have a dream”. La frase è come una preghiera. La preghiera di Martin Luther King Jr. Una preghiera che infonde coraggio. Il coraggio di vivere perché c’è qualcosa di grande per cui vale la pena vivere: il sogno. Perché, come direbbe Johnatan Safra Foer “se niente importa”… Già! Se niente importa a che serve la vita? Se tutto finisce con il nostro ultimo respiro a che serve il passaggio su questa terra? “I have a dream” dice il pastore di Atlanta il 28 Agosto 1963. E non dice “noi”. Dice “io”. Perché la preghiera è prima di tutto un gesto personale.
Parola e corpo
“I have a dream” ripete la voce come in un mantra. E a ogni ripetizione il significato muta, si impregna del corpo del pastore. Perché quella parola vive nel corpo turbato sul pulpito. Non è lettera morta. La luce di Martin e la luce del suo parlare diventano indistinguibili in quel momento. Martin, si potrebbe dire, è il Verbo. E anche lui ha la sua croce.
La fine di un mito
Sono le 6 del pomeriggio del 4 Aprile 1968. Martin Luther King Jr., già Michael King, viene assassinato anche lui, come Kennedy, da un proiettile. Siamo stavolta a Memphis, nel Tennessee, a soli (si fa per dire) 450 chilometri da Dallas. E così, con la morte, egli stesso diventa un sogno: quel sogno. Che però è destinato a essere realtà. Perché il suo esempio resta. Resta il coraggio di credere nel futuro fino alla fine. Resta un insegnamento per tutti: “I have a dream”… Credere per vedere!
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