Sui diritti animali

Perché mangiamo, indossiamo, sfruttiamo, imprigioniamo esseri viventi senza mai chiederci se ciò che stiamo facendo non sia per caso moralmente sbagliato? Che cosa ci permette di saltare quella banale riflessione che riconosce agli animali non umani una propria dignità con tanto di diritti inviolabili? Perché, in altre parole, la nostra legislazione non proclama i diritti animali al pari di quelli umani? O forse al contrario li riconosce laddove sanziona il maltrattamento degli animali?

Sui diritti animali

Andiamo con ordine. Qualche ragione per non equiparare diritti umani e diritti animali c’è. Tra i diritti umani ve ne sono infatti alcuni che non avrebbe senso attribuire ad altri animali. Difendere strenuamente il diritto della mia gatta Milù alla libertà religiosa farebbe di me un tipo alquanto stravagante, come lo sarebbe scendere in piazza per rivendicare il diritto di voto alle galline ovaiole.

Che non si possano attribuire tutti i diritti umani agli animali non umani non significa però che gli animali siano da considerare come privi di diritti in generale. Avere un credo religioso e praticarlo o esprimere il proprio voto in una elezione non sono diritti animali in quanto, molto banalmente, gli animali non sono in grado di esercitarli né, di conseguenza, se ne dimostrano interessati. Potremmo in verità concederli senza danno, ma scrivere una legge che garantisca la libertà di stampa per i criceti sarebbe una fatica inutile. I criceti non hanno nessuna voglia, per quanto noi possiamo insistere, di dire la loro su carta stampata.

A qualcosa però sembrano interessati. Una buona fetta degli animali non umani, a dire il vero, è del tutto simile a noi sotto diversi aspetti: anatomici, fisiologici e psicologici. Gli animali manifestano, di conseguenza, una notevole propensione al piacere e una naturale repulsione nei confronti del dolore. Non solo: se anche non se ne fanno niente della libertà religiosa e di opinione, è però chiaro a chiunque (o almeno a qualsiasi persona che per qualche motivo ne abbia imprigionato almeno uno nella sua vita), che essi non vogliono in nessun modo passare la loro vita in gabbia e desiderano al contrario godere della libertà personale e dell’aria aperta. Per fare un esempio tratto dalla letteratura scientifica, a una coppia di psicologi che le stavano insegnando il linguaggio dei segni, la femmina di scimpanzé Washoe aveva chiesto ad un certo punto la libertà in modo inequivocabile, proprio tramite quei segni le erano stati insegnati. Non c’è da stupirsi. E se la cosa meraviglia è solo perché non vogliamo accettare fino in fondo la verità che gli animali non umani siano, nei desideri e bisogni più fondamentali, del tutto simili all’uomo, e che meritino in quel campo la stessa considerazione e gli stessi diritti.

Non vogliamo accettarlo perché se lo facessimo saremmo costretti a cambiare molte abitudini rassicuranti, astenendoci tra l’altro da alcuni di quei piaceri che molti considerano, forse a ragione, irrinunciabili. E così è molto più comodo, per esempio, protestare una volta all’anno contro il massacro di cani che avviene nel sud della Cina in occasione del festival di Yulin. Protesta legittima ma altrettanto inutile perché siamo i primi a non dare il buon esempio. Col risultato che annualmente si protesta e annualmente la Cina se ne infischia di ciò che crediamo circa il fatto che non si debbano mangiare cani.

Siamo impotenti, perché la nostra legislazione difende gli animali solo in quando oggetti di investimento emotivo, unicamente in ragione del nostro sentimento collettivo nei loro confronti, e non in quanto soggetti autonomi di diritto. La legge sul maltrattamento degli animali (Legge 20 Luglio 2004, n. 189) è abbastanza chiara su questo punto. Essa vieta bensì di “utilizzare cani (Canis lupus familiaris) e gatti (felis silvestris) per la produzione o il confezionamento di pelli, pellicce, capi di abbigliamento e articoli di pelletteria” (e altrove si vieta anche la macellazione); tuttavia porta un titolo alquanto eloquente: “dei delitti contro il sentimento per gli animali”. Non è insomma contemplato il delitto contro l’animale ma solamente contro il nostro sentimento nei confronti di quella categoria.

Ma il sentimento collettivo può cambiare di tempo in tempo e di popolo in popolo e i cinesi del sud possono tranquillamente far spallucce sostenendo che il loro sentimento comune dice che i cani sono cibo e nient’altro. Noi, dal canto nostro, vorremmo poter dire che il nostro sentimento è quello vero. Ma, ahimè, avremmo il nostro bel da fare a convincerli: il sentimento non è né vero né falso. Uno sente in un certo modo, un altro in un altro. Un popolo la sente così, quell’altro la sente in modo diverso: tutto qui.

Per questo è impossibile oggi parlare di diritti degli animali non umani né tanto meno difenderli a livello internazionale (se mai qualcuno ci avesse pensato…). Il problema è che gli animali non sono considerati dalle nostre società come soggetti di diritto. Essi sono e rimangono, per legislazione italiana, oggetti. Sia pure oggetti collettivi, da difendere certo, ma come difendiamo i beni culturali di interesse comune. Esseri che consideriamo senzienti solo finché pare e piace a noi. Dopo di che essi saranno, al di qua di ogni ragionevole dubbio, macchine da montare e smontare per ogni evenienza. E il tutto unicamente per non far mancare nulla al nostro piacere e per non turbare quella routine quotidiana che tanto ci rassicura ma che è in verità la morte di ogni pensare.

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